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L'INFERNO DANTESCO E USCIRE A RIVEDER LE STELLE

Aggiornamento: 22 mar 2022

Il 13 Ottobre 2021, il presidente Sergio Mattarella, accompagnato da Dario Franceschini, Ministro della cultura, e Mario De Simoni, Presidente e Amministratore Delegato di Ales, ha inaugurato la mostra “Inferno” alle Scuderie del Quirinale, organizzata in occasione del settimo centenario della morte del sommo poeta, Dante Alighieri. Inferno è un viaggio che parte dal Medioevo e arriva ai nostri giorni, attraverso 232 opere d’arte, 87 delle quali prese in prestito da grandi musei, raccolte pubbliche e collezioni private italiane e mondiali, ideato dallo storico dell’arte Jean Clair, il quale, attraverso la suggestione delle immagini, accompagna il visitatore in territori ambigui e spaventosi, fino a “riveder le stelle”.


Il percorso inizia da un limbo che prepara il visitatore al suo viaggio. La caduta degli angeli ribelli vive in un mirabolante confronto tra La Caduta di Andrea Commodi, da poco tirata fuori dai depositi degli Uffizi ed esposta nelle nuove sale del Cinquecento, e il minuzioso lavoro in marmo attribuito a Francesco Bertos, proveniente dalle collezioni di Palazzo Leoni Montanari a Vicenza. I corpi che s’attorcigliano e cadono, nel dipinto di Commodi e nella scultura veneta, richiamano visivamente la porta dell’Inferno, cui s’arriva dopo la morte e il Giudizio, come ci ricordano l’orrida scultura in legno dello spagnolo Gil de Ronza, una spaventosa Morte a grandezza naturale, e il Giudizio finale del Beato Angelico, in una sala che scuote fin da subito il pubblico col suo forte impatto scenografico.




Varcata la soglia dell’oltretomba, ecco una bocca enorme e lorda, intenta a fagocitare anime brulicanti per l’eternità.

“L’inferno è un budello interminabile, pozzo senza fine, ‘puteus abyssi’, latrina ultima, piena di odori insopportabili, le fetide fogne in cui sono imprigionate le potenze infernali e si ammassano i mortali che hanno rifiutato Dio.”


Una volta terminata la visita, si è assunta la consapevolezza che non c’è solo l’Inferno di Dante: infatti, la sala degli “abitanti dell’Inferno” è una selva di dipinti, ispirati da molte fonti, e che Laura Bossi, moglie di Jean Clair, ben riassume nel suo saggio in catalogo: “L’antro fiammeggiante dei testi biblici”.


L’Inferno, nella cultura medievale, era visto come la strana terra ai confini del mondo, come nelle testimonianze delle visioni dei monaci. San Brandano lo immaginava zeppo di edifici dalle forme più inusitate e di animali bizzarri e luogo di torture immani per le anime dei peccatori, con un Giuda che viene tormentato coi modi più sadici per sei giorni alla settimana, mentre la domenica, per sua fortuna, viene lasciato riposare.


Subito dopo, si passa all’esplorazione dell’Inferno dantesco, attraverso le illustrazioni di Federico Zuccari, di Giovanni Stradano, di William Blake. Il culmine si raggiunge con le pene di Paolo e Francesca e quelle del conte Ugolino; con l’Inferno di Filippo Napoletano e i ritratti di Dante di Domenico Petarlini.




Le chiavi di lettura sono diverse da quelle che studiamo. Sull’episodio del V canto i curatori hanno accuratamente evitato ogni accenno di romanticismo (ad eccezione per pochi episodî, come la grande tela di Giuseppe Frascheri dove i due innamorati riescono addirittura a tenersi per mano), perché Paolo e Francesca sono anzitutto due anime che bruciano tra le fiamme infernali e che sono travolte dalla stessa bufera che tormenta migliaia di altri peccatori che nella vita si sono dati ai piaceri carnali: i Voluptueux di Victor Prouvé cancellano ogni residuo di sentimentalismo e fanno ripiombare il visitatore in quella dimensione di carnalità, sozzura e bassi istinti su cui Jean Clair e Bossi hanno costruito l’impalcatura della loro mostra. Lo stesso vale per Ugolino della Gherardesca: nessuna pietà, nessun riferimento alla sofferenza interiore del personaggio e alla sua travagliata vicenda personale. Non c’è l’Ugolino di Diotti, chiuso nella Torre della Muda a meditare sul suo tremendo destino, non ci sono neanche i bambini gementi e imploranti di Reynolds davanti a un Ugolino muto e impassibile: alle Scuderie del Quirinale c’è solo l’immagine bestiale di un uomo conficcato nel ghiaccio, che con ferocia disumana divora e scarnifica la testa sanguinolenta del suo avversario, arrivando persino a provocare, nel dipinto di Gustave Courtois, lo sgomento d’un Dante atterrito, che si nasconde dietro un Virgilio adolescente e serafico.




L’originalità della sezione su Dante sta nel focus sulla topografia dell’Inferno, che s’apre col prestito eccezionale della Voragine infernale di Botticelli, in arrivo dalla Biblioteca Apostolica Vaticana, e prosegue sino alla bizzarra teoria di Roland Krischel, autore nel 2010 d’un ampio saggio in cui avanzava l’ipotesi che il Teatro Anatomico di Padova sia stato ispirato dalla forma a cono rovesciato dell’inferno, e che Galileo Galilei abbia avuto un ruolo nella progettazione.


L’Inferno è impensabile, indicibile, infigurabile, ma il pensiero umano è ancorato nello spazio e i poeti non hanno mai rinunciato a descrivere l’indescrivibile, a immaginare l’oltretomba come un ‘luogo’, dotato di una geografia, di una topografia e di un’architettura. La sezione più rapida della rassegna mostra immagini che provano a misurare l’Inferno, a ricostruirne l’idrografia, a ipotizzarne collocazioni più o meno verosimili. E, poi, altro motivo d’interesse sono le illustrazioni della Divina Commedia di Miquel Barceló, a testimoniare, con il loro espressionismo garbato ma non trattenuto, le suggestioni che l’immaginario dantesco ancora esercita oggigiorno:

“è uno dei grandi capolavori di sempre”, raccontava due anni fa Barceló, “è un’opera incredibilmente attuale: basta cambiare i nomi dei personaggi per trovare molte fotografie dell’attualità. È impressionante come un poema così antico riesca a mantenere intatta la sua attualità”



Saliti al piano superiore, dopo una sezione interlocutoria sull’Inferno nella cultura popolare, si ripercorre la storia della rappresentazione del diavolo, dall’essere demoniaco dei secoli più antichi all’angelo caduto, dei romantici e dei simbolisti, e di quella della sua manifestazione in terra, la tentazione, che assume le sembianze più disparate cercando di sedurre o spaventare sant’Antonio, ora coi terrificanti mostri delle Tentazioni di Salvator Rosa, ora coi diavoli armati di clave di Bernardo Parentino, oppure con la disinibita e procace tentatrice della singolare tela di Cézanne che giunge in prestito dal Musée d’Orsay.


Nessuno però oggi crede più al diavolo, la Chiesa stessa non osa più nominarlo, come ormai non osa più parlare dei Male o dell’Inferno. Oggi abbiamo più da temere dagli inferni umani che dal diavolo: ed ecco, quindi, che s’apre la grande aula degli inferni in terra, l’apoteosi dell’orrore. Il male fa parte della storia dell’umanità. Per il culto cristiano, il primo uomo nato da una coppia umana ha assassinato suo fratello. Le rappresentazioni in sala provano che nella società moderna anche il male s’è aggiornato. Ha preso, intanto, la forma di carceri che somigliano a fabbriche e di fabbriche che somigliano a carceri: le intricate e oscure prigioni di Piranesi sfilano accanto alle tetre ciminiere di Pierre Paulus e alle enormi acciaierie di Anders Montan, fino ad arrivare agli oscuri meandri di una grande città industriale che s’affaccia sul mare, nella tela di Georges-Antoine Rochegrosse, dove un uomo piange la morte della poesia, mentre in lontananza corrono i treni sulle rotaie, l’aria si riempie delle esalazioni dei fumaioli, baracche si addensano ai margini della metropoli. È l’Inferno in terra del lavoro che ha trasformato gli umani in schiavi.




Sulla parete attigua, l’Inferno degli emarginati, i pazienti degli ospedali psichiatrici dipinti da Signorini e disegnati da Paul Richer. Sul lato opposto della sala, ecco invece l’Inferno dei migranti, rappresentato da un’angosciante tela di Previati (Gli orrori della guerra: l’esodo, eseguita mentre infuriava la Prima Guerra Mondiale), che sottolinea una delle conseguenze più tristi e tragiche per chi è riuscito a scampare ai massacri. Tutto il centro della grande aula del piano superiore è occupato dalle più cupe e fosche visioni della guerra, che mai ha smesso di perseguitare l’umanità. Si prova quasi un senso di soffocamento davanti ai cadaveri martoriati e agli scheletri abbandonati nelle trincee della Prima Guerra Mondiale, nelle incisioni di Otto Dix, messe tutte l’una a fianco dell’altra. Si vorrebbe tentare la fuga, quando ci si trova dinnanzi ai calchi dei soldati feriti nel conflitto, che sembrano quasi osservarci. Ci s’impressiona alla vista di una delle incisioni della serie The Dance of Death di Percy Delf Smith: La morte è sbalordita, in cui la mietitrice stessa è incredula di fronte alle carneficine provocate dalla follia dell’essere umano. È sconcertante quanto il campo di battaglia dipinto da Georges Leroux nella sua opera L’enfer somigli alle visioni apocalittiche dei pittori al piano di sotto: solo che questa non è una visione, è la realtà.




Quando si pensa d’aver toccato la climax della mostra, arriva il peggior Inferno mai comparso sulla terra, quello dei campi di sterminio nazisti. Si legge l’originale della bozza di Se questo è un uomo di Primo Levi e si osservano le tele di un altro deportato, Zoran Mušič, prima di volgersi a vedere la più terribile delle visioni in mostra: il Memoriale Dachau di Fritz Koelle, un bronzo che raffigura un sopravvissuto all’inferno nazista, colto con espressione afflitta, mentre indica al riguardante il cadavere di un bambino che tiene tra le sue braccia. Di fronte, il massacro di Le petit champ à Buchenwald di Boris Taslitzky, artista che conobbe in prima persona Buchenwald. Le ultime due inquietanti immagini, Twin Towers Ablaze di Raymond Mason e Nein. Eleven dei fratelli Chapman dimostrano che dell’inferno non ci siamo ancora liberati e che non abbiamo di che viver tranquilli.





Possiamo però alzare lo sguardo: la risalita a “riveder le stelle”, con i lavori di due contemporanei, Anselm Kiefer e Gerhard Richter: si chiudere il percorso, dopo esser scesi nell’abisso più profondo, come in una sorta di viaggio dantesco, con un finale ha ben poco d’irreale e di immaginifico, ma è comunque straordinariamente suggestivo; è speranza di liberazione e rinascita.


Dopo aver trascorso due ore a saggiare il peggio dell’essere umano, i curatori offrono una possibilità di redenzione. Si passa dall’immondo al “mondo” nell’accezione originaria del termine, il mundus “figura dell’ordine e della bellezza”, che ha la stessa valenza del greco. Come Dante, alla fine della mostra siamo risaliti.


L’Inferno però non s’è fermato: continua ad esistere alle nostre spalle. Per quanto la fede e le religioni possano essere in crisi, l’inferno è una realtà che rimane ben presente sulla terra: quelle immagini che ci hanno turbato sono lì che lo attestano. E ci hanno turbato proprio perché la storia dell’arte è storia dell’uomo.


Jean Clair ha già pubblicamente dichiarato che Inferno sarà la sua ultima mostra: si conclude così la sua carriera di curatore. “Inferno” è una catabasi che ha la struttura del viaggio di Dante, ma è anche un itinerario nella mente del curatore ed è soprattutto un dramma che descrive l’umanità affidandosi al solo potere delle immagini, che a loro volta diventano specchio di quella società edonista, pragmatica, o tradizionalista, o positivista, o progressista, che è la società odierna, che si riduce ai suoi elementi organici, alla pura materia.


Il nostro Inferno non è più quello delle bolge e dei gironi danteschi, ha semplicemente mutato il suo aspetto ed è diventato realtà.







Daniela Riccardi


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